DEMETRA E CORE. IL CULTO CATANESE

Cicerone, nel corso delle sue orazioni contro Gaio Licinio Verre, ex governatore della Sicilia, elaborate intorno al 70 a.C., ci informa dell’esistenza a Catania di un santuario di Cerere divenuto teatro di un furto sacrilego che aveva offeso profondamente il sentimento religioso della città: 

Nella parte più interna di quel sacrario si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che la celebrazione dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili. Di notte e di nascosto gli schiavi di Verre portarono via questa statua da quel luogo dove la solennità del culto risaliva alla più veneranda antichità. Il giorno dopo le sacerdotesse di Cerere e le sovrintendenti di quel santuario, donne piuttosto anziane di specchiata virtù e di famiglia illustre, denunciano l’accaduto alle autorità di Catania. A tutti il fatto appariva doloroso, vergognoso, un vero e proprio lutto cittadino.

Il culto delle dee greche Demetra e Core (Cerere e Proserpina per i romani) fu il più diffuso e certamente il più sentito nella Sicilia antica. Le due divinità erano di norma unite nel culto, al punto che ci si riferiva ad esse, semplicemente, come “le due dee”.

Demetra e Core

Demetra è la dea dell’agricoltura, colei che offre il nutrimento agli uomini; la figlia Persefone, spesso detta semplicemente Core, ossia la “Ragazza”, è invece la sposa di Ade, il dio dell’Oltretomba, presso il quale si trattiene per una parte dell’anno per poi tornare, ciclicamente, fra le braccia della madre e alla vita. La vicenda mitica di Persefone, rapita dal dio dei morti e poi restituita a Demetra, è una chiara metafora del rinnovarsi della vita sotto ogni sua forma (non solo quindi della vegetazione), un ciclo nel quale la morte non segna la fine di tutto ma è la tappa necessaria di ogni (ri)nascita. ​

Fontana di Proserpina, Catania | Foto storica

A Catania il culto delle due dee – e la cosa non può sorprendere – era legato a doppio filo all’Etna. Secondo il mito, quando Core fu rapita da Ade, Demetra iniziò l’angosciosa ricerca della figlia dopo avere acceso le fiaccole nei crateri dell’Etna. Il motivo mette in stretta relazione le dee con il vulcano, con possibile controllo dell’attività eruttiva, prerogativa che – come è noto – in età cristiana passerà a sant’Agata.

Nel santuario catanese, secondo la testimonianza di Cicerone, si tenevano cerimonie di tipo misterico riservate sia alle donne sposate sia alle vergini: sembra questa una caratteristica esclusiva del culto etneo, almeno in età romana, poiché di norma le feste greche in onore di Demetra e Core, le Tesmoforie, erano riservate solo alle donne che avevano già contratto il vincolo matrimoniale. 

La scoperta del deposito votivo di piazza San Francesco nel 1959 ha dimostrato in modo definitivo che il santuario delle dee, che Cicerone ricorda come antichissimo e venerando, doveva trovarsi in una zona della parte bassa di via Crociferi. Tuttavia già in precedenza nell’area che ha restituito la stipe votiva, poco più a valle, erano emersi indizi abbastanza chiari della presenza del culto. 

Nel primo Seicento in piazza Santa Nicolella (già San Niccolò di Triscina) fu rinvenuta una statuetta in terracotta, oggi perduta, con dedica a Persefone Basilis.

Copia dell'iscrizione dedicatoria a Persefone Basilis.

 

La statuetta è andata purtroppo perduta, ma ci rimane una copia dell’iscrizione, databile con molta probabilità all’età medio-imperiale. Particolare attenzione deve essere attribuita al titolo di Basilis, “Regina”, assegnato a Persefone, che trova un parallelo nel culto di Afrodite Basilis a Taranto

il rilievo marmoreo di demetra e core

Sempre in piazza Santa Nicolella, durante i lavori di sistemazione dell’edificio oggi occupato dalla Questura, negli anni Trenta del secolo scorso venne alla luce un celebre rilievo marmoreo, oggi custodito nel Museo Civico di Castello Ursino, che offre la testimonianza iconografica più chiara, e più raffinata, del culto di Demetra e Core a Catania.

Il marmo fu scoperto insieme ad altri frammenti architettonici di epoche diverse, utilizzato come materiale di riempimento: è tuttavia molto probabile che la posizione originale del manufatto, così come quella della statuetta di Persefone Basilis, non fosse molto distante dal luogo di rinvenimento, e che entrambi i reperti siano scivolati dalla sovrastante via dei Crociferi: il santuario infatti era situato lungo il pendio della collina tagliata dalla via, la stessa alla quale si appoggia il teatro antico di Catania. Il rilievo doveva far parte delle offerte votive consacrate alle dee nel luogo sacro da un gruppo familiare, come è dimostrato dalle iscrizioni che i dedicanti – una coppia e i loro figli – fecero apporre lungo i listelli che delimitano il fregio. Il marmo raffigura Demetra e Core una accanto all’altra: la madre, a sinistra di chi guarda, solleva con la mano un lembo del manto che le copre le spalle; la figlia regge invece con la mano sinistra una fiaccola.

Ai piedi di Core appare un rialzo del terreno con una cavità centrale sulla sommità che è stato oggetto di interpretazioni differenti: si è pensato che lo scultore abbia così voluto rappresentare un altare a pozzo, un focolare, uno degli ingressi per l’Oltretomba o fornire un’indicazione sintetica del cratere dell’Etna, con riferimento alla tradizione siciliana dell’accensione delle fiaccole di Demetra sul vulcano.

Nulla di sicuro può dirsi sulla figurazione della parte perduta del rilievo, dove potevano apparire i dedicanti o altre figure della cerchia delle dee: rimangono solo esili tracce di decorazione lungo la linea di frattura.

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Ricostruzione digitale del rilievo di Demetra e Core

Le origini del rilievo

Il rilievo catanese non è di produzione siciliana: sul piano stilistico il marmo si riconosce immediatamente come uno dei rilievi votivi prodotti ad Atene negli ultimi decenni del V sec. a.C. Questa datazione è tuttavia in netto contrasto con le iscrizioni che corrono lungo i listelli che racchiudono il fregio, datate dagli studiosi almeno due o tre secoli più tardi; con questa cronologia bassa si accorda anche il dialetto dorico usato nelle iscrizioni, che a Catania prenderà il sopravvento solo in età ellenistica.

Spiegare questo scarto temporale non è semplice. Poiché non sembra possibile abbassare la datazione del rilievo dal pieno dell’età classica all’età ellenistica, rimangono praticabili soltanto due strade interpretative. Una vuole che il pezzo, creato alla fine del V sec. a.C. in Attica, sia giunto solo molto più tardi in Sicilia, acquistato nel mercato antiquario e dedicato alle due dee nel quadro dei commerci di arte greca che prese piede nell’Occidente romanizzato in età tardo repubblicana; tale spiegazione, tuttavia, non tiene conto che di norma opere d’importazione di questo tipo erano destinate al collezionismo privato, per abbellire case e giardini di famiglie facoltose desiderose di esibire uno stile di vita “alla greca” o, al più, di rivendicare un’identità autenticamente greca:  l’impiego di opere d’arte antiquaria di questo tipo come ex voto in aree sacre non sembra attestato altrove, e si può sospettare che un procedimento del genere doveva essere del tutto estraneo alla mentalità antica. 

Sembra quindi più plausibile che il rilievo sia giunto da Atene a Catania in una data non lontana dalla sua realizzazione: la presenza di un dono votivo ateniese a Catania nella parte finale del V sec. può del resto essere giustificata dall’alleanza che le due città di stirpe ionica strinsero in occasione della sfortunata spedizione di Atene contro la dorica Siracusa nel 415 a.C.

In tal caso è necessario pensare che le iscrizioni dedicatorie siano state apposte solo molto più tardi, nell’ambito del reimpiego del marmo in occasione di una ristrutturazione generale del santuario (forse, ma non necessariamente, in seguito ad un evento catastrofico).

A questo riguardo è utile ricordare che il listello superiore conserva chiaramente tracce di una precedente iscrizione poi erasa per fare posto all’attuale; si può credere che in occasione del ripristino del monumento e forse anche dell’area di sua pertinenza la famiglia che curò a sue spese il restauro ritenne opportuno fare apporre una nuova dedica sul rilievo. Il santuario di Demetra e Core ebbe certamente una vita lunghissima, a partire almeno dal VI sec. a.C. come testimoniano i più antichi rinvenimenti del deposito votivo.

Cicerone, nel I sec. a.C, insiste sull’antichità del santuario ed è facile credere che la sua attività non si concluse con il furto del simulacro ad opera di Verre. Un segnale in questo senso può venire dagli scavi del limitrofo teatro antico di Catania, dove il principe di Biscari, nel Settecento, portò alla luce un busto colossale coronato di spighe, probabilmente il ritratto di una donna della casa imperiale romana nelle vesti di Demetra/Cerere. 

Jean-Pierre Houël, il celebre pittore e architetto francese, a ricordo della scoperta, riprodusse il busto, oggi nella collezione civica di Castello Ursino, in una tavola del terzo volume del suo Voyage. La scultura, databile tra la fine del I e il II sec. d.C., dimostra come ancora in piena età imperiale l’area fosse sacra alle due dee.

cerere

Busto-ritratto a dimensione maggiore del vero probabilmente rappresentante una donna della casa imperiale nelle vesti di Demetra o Core. Dal disegno di Jean-Pierre Houël (in alto) al busto oggi parte della collezione civica del Castello Ursino di Catania (in basso).

A Cura di

Fabio Caruso, Ricercatore ISPC CNR – Catania

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